La Sezione di Sanità reggimentale, gli ospedali militari e le infermerie di campo

Per quanto riguarda gli organi operativi, l’unità di base è la Sezione di Sanità reggimentale, diretta da un capitano medico chirurgo; citando i «Ricordi» del capitano di Stato Maggiore Lambert, questa aveva il compito di «medicare ed operare-sgombrare i feriti sugli stabilimenti di campagna o improvvisati retrostanti» ed era divisa in due Reparti di Sanità di battaglione, comandati da un tenente medico chirurgo e dotati di materiale sanitario (barelle, bende, garze, lacci emostatici, stecche, aghi, forbici, bisturi, ecc.) e farmaci (alcool, acqua ossigenata, tintura di iodio, naftalina, morfina, cloroformio, antiparassitari). Il Reparto di Sanità era formato da «uno o due aspiranti ufficiali medici subalterni, da un cappellano militare e da circa una trentina di militari infermieri, portaferiti e barellieri […] divisi in squadre da dieci elementi ripartite tra le varie compagnie dirette da sergenti o caporali Aiutanti di Sanità in numero di due per battaglione» (Giachino, in Il silenzio e la cura)

R.Lambert “Ricordi logistici e tattici” 1909 (consulta l’intero libretto)

Dal fronte agli ospedali territoriali 

Nelle infermerie di campo, quanto più possibili lontane dal fuoco avversario, sono medicati i soldati che non riescono a provvedervi da soli; viene quindi valutata l’entità della ferita: se lieve, il soldato viene «riabilitato» e rimandato al fronte (scortato dai carabinieri in caso se ne ravvisi la possibilità di diserzione), se più grave, viene caricato su mulo o autoambulanza verso l’ospedaletto di tappa più vicino e da qui, qualora ritenuto «salvabile», all’ospedale territoriale nelle retrovie. Nel 1917 sono 450 gli ospedali militari in Italia, con capienza tra i 50 e i 200 posti letto, ai quali si affiancano gli ospedali locali di fortuna (Cosmacini). L’organizzazione infatti, nonostante i progressi della scienza medica, si mostra infatti, fin dalle prime fasi del conflitto, carente ed insufficiente a gestire l’enorme quantità di feriti e di malattie che la guerra produceva di giorno in giorno. Infatti, lo sgombero di ammalati e feriti dalla zona delle operazioni verso il Paese cresce con il passare degli anni di guerra: 81.000 nel 1915, 142.000 nel 1916, 305.000 nel 1917 e 334.000 nel 1918. Gli ufficiali medici passano dai 5.236 del maggio 1915 a 14.000 nel 1916 e 17.700 nel 1918; questo aumento, però, non è sufficiente dal momento che, ad un lieve incremento degli organi esecutivi sanitari di base di campagna, specialmente in prima linea (da 53 ad 89 sezioni sanità), corrisponde una forza di combattenti effettivi in campo triplicata dal 1915 al 1918 (Botti). Gli ufficiali medici sono peraltro affiancati, come abbiamo detto, oltre che da sottoufficiali e graduati della sanità, anche da soldati barellieri istruiti alla bisogna e da studenti di medicina dell’ultimo biennio reclutati nelle retrovie e inviati al fronte dopo sbrigativi corsi abilitanti. 

Alla variegata gamma di ferite da arma da fuoco si aggiungono malattie ed infezioni ad alta mortalità (come la gangrena gassosa), ma è la malattia della mente a dominare per la prima volta gli studi e 

gli interessi degli ufficiali medici: l’arrendevolezza, comune a tutti i soldati, verso un destino ineluttabile di morte subitanea poteva produrre in alcuni casi dei disturbi psichici, che oggi diremmo “da stress post-traumatico”, in soggetti grossolanamente definiti «scemi di guerra». 

Ferrara costituì, per l’approfondimento clinico di questa psicopatologia, una delle eccellenze a livello nazionale. 

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