Il Servizio Sanitario Militare nella Grande Guerra


La Prima Guerra Mondiale produsse un numero stimato di morti tra i dieci e i dodici milioni e fu considerata una vera e propria “nuova peste”, la peste del Novecento, nel suo indurre intensi sconvolgimenti demografici presso i popoli dei Paesi coinvolti, tra morti in battaglia, epidemie negli eserciti ed estese tra i civili, carestie, annientamento di vaste porzioni di territorio e di intere famiglie. Il Giornale di Medicina Militare, pubblicato a cura del Sevizio sanitario dell’Esercito per i cinquanta anni della vittoria, rileva un numero di caduti italiani di 680.071, dei quali 406.000 per fatti bellici; l’Esercito italiano riportò 402.000 perdite, di cui 317.000 sul campo di battaglia, 69.000 per ferite negli ospedali o in casa propria e 16.000 in prigionia. I feriti (non comprendendo quelli in prigionia) sono stimati in 950.000 (il 16,57% dei mobilitati), gli invalidi a seguito di ferite o malattie 462.812. 

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Freno alla crescita demografica e nuove patologie 

La Grande Guerra impone un forte freno ad un secolo di crescita demografica: come ricorda Cosmacini, la vasta mobilitazione degli eserciti intensifica il rischio di propagazione dei contagi; le fila dei combattenti sono falcidiate dal tifo e dal colera e si riaffaccia, dopo il periodo di pace, anche il pericolo del contagio malarico. Muoiono a decine di migliaia per tubercolosi e per la nuova epidemia di influenza spagnola, definita dai tedeschi «catarro lampo»; l’inedita caratteristica di guerra di posizione, il «sistema trincea», è fervida culla per tisi e dissenteria, mentre fino alla popolazione giungono i virus del vaiolo, dell’encefalite, della meningite cerebro-spinale e di altre malattie infettive epidemiche mortali. Inoltre, l’impiego di enormi mezzi corazzati portatori di morte (quali aeroplani e carrarmati) ed il parimenti nuovo uso dei gas tossici letali (quali l’iprite, o mustard gas) concorrono all’affermazione, sempre di Cosmacini, che «La guerra è anche, più che mai, guerra psicologica». 

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Resisi ben presto conto, e trovandosi a fare i conti con tutto ciò, gli eserciti belligeranti cercano di organizzare al meglio, in un continuo stato di emergenza, il proprio servizio sanitario militare. 

Il Servizio sanitario militare italiano 

In Italia, il Servizio sanitario militare dipende dal Ministero della Guerra per le retrovie, dal Comando supremo e dalla Direzioni di sanità d’armata per il fronte (1a e 2a armata delle Alpi Giulie, 3a nel Cadore e 4a in Trentino). Ferruccio Botti spiega chiaramente l’organizzazione generale del Servizio: presso il Ministero è attivo l’Ispettorato di sanità militare che esercita funzioni consultive nei confronti del Ministero stesso e di supremo organo medico-legale, mentre la funzioni direttive sono affidate alle diverse direzioni e uffici del Ministero. Successivamente, una maggiore centralizzazione è raggiunta dapprima con l’istituzione dell’“ufficio sanitario” presso il Ministero stesso, poi con la sostituzione di questo con la “Direzione generale di sanità militare”, articolata in quattro divisioni:
1a) Personale,
2a) Atti sanitari ed affari generali
3a) Materiale
4a) Servizi tecnici (igiene, profilassi e vaccinazioni; statistica sanitaria militare; servizio ospedaliero; invalidi di guerra)


Per le zone di operazione, dalle Direzioni di sanità d’armata dipendono una moltitudine di organi esecutivi, tra i quali vanno citati: le ambulanze chirurgiche, attrezzate per la bonifica dai gas; l’apparecchio radiologico someggiato (inventato da Ferrero di Cavallerleone e già utilizzato in Libia nel 1911-link al documento originale); infermerie temporanee e di primo intervento; ospedali da campo e territoriali; treni merci attrezzati (47 in totale nella Grande guerra, per sgomberi di durata inferiore alle 8 ore) e treni ospedale (22 forniti dalla Croce Rossa Italiana e 4 dal Sovrano Militare Ordine di Malta); le ambulanze fluviali e marittime. L’impiego massivo dell’automezzo consente di congiungere facilmente la ferrovia con la prima linea e rende più agevole gli sgomberi dei feriti/malati in una politica improntata dal Comando Supremo al «trattenere il massimo numero di degenti in zona di guerra, per facilitarne il recupero (che per varie ragioni diventa molto difficile una volta che essi sono usciti dalla zona soggetta alla giurisdizione del Comando Supremo)» (Botti). La “politica degli sgomberi”, quindi, imponeva che solo i malati o feriti gravi (con prognosi oltre i 30 giorni) potessero uscire dalla zona delle operazioni, mentre quelli lievi, gli intrasportabili e quelli gravi ma trasportabili potevano essere curati sul posto ricorrendo agli organi esecutivi di cura. Il Giornale di Medicina Militare ricorda come gli sgomberi verso gli ospedali territoriali sfiorarono, in alcuni mesi dei quattro anni di guerra, le centomila unità (95.000 nel maggio 1917, altrettanti nell’agosto 1916 e 90.000 nel novembre 1915). 

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